Nicolò Fraticelli: che il suo bisogno di pace ci insegni il rispetto

a cura di Florinda Barbuto

Chiunque mi conosce sa bene quanto tengo alla privacy e all’intimità di certi momenti. Tuttavia la notte insonne dopo aver appreso questa notizia mi ha spinto a fare un’eccezione.

Ieri sera, sfogliando i social – come purtroppo spesso facciamo tutti nel dopo cena – mi sono imbattuta in un post che mi ha colpito profondamente. La mamma di Nicolò Fraticelli salutava il suo Angelo, volato via da 7 giorni.

Conosco la mamma, conosco il papà, conosco il fratello. I nostri ragazzi hanno condiviso tanti ambienti di vita prima del loro trasferirsi in un quartiere diverso di Roma. Con loro abbiamo condiviso e condividiamo interessi, valori, aree di lavoro.

Da quando hanno lasciato il nostro vecchio quartiere ci siamo persi di vista ma ho continuato a seguire le loro avventure sui social, per quanto scarse fossero le loro condivisioni: momenti sempre di gioia, di viaggi, di affetto, di calore, di esserci gli uni per gli altri.

Ci ho messo ore a cercare di capire o forse a farmene una ragione. Forse, avevo intuito già dalle poche parole lette nel post eppure, forse, speravo nella conferma di aver capito male.

Perché scrivo queste riflessioni?

Il primo e più urgente motivo è che, nel fare qualche ricerca per cercare di capirci qualcosa, mi sono imbattuta in una marea di titoli che mi sono sembrati inappropriati e inaccettabili. Due cose in particolare mi hanno colpito negativamente.

La prima è stato il richiamo praticamente onnipresente ai suoi video di tiktok. Nicolò non era più un ragazzo di 21 anni. Non era più un ragazzo che soffriva. Nicolò è stato “sintetizzato” come uno tiktoker.

La seconda è stata l’enfatizzazione dei suoi video come segno di una “richiesta di aiuto inascoltata, non colta”.

A un certo punto mi si sono sovrapposti il dolore per una conferma che non avrei voluto trovare, e la rabbia per quanto leggevo e ascoltavo.

Nicolò era prima di tutto un ragazzo, ben più complesso e profondo di quanto un’etichetta come "tiktoker" possa descrivere.

Era un ragazzo. Un ragazzo amato dalla sua famiglia, con tanti amici, che si batteva per affrontare le sue difficoltà, con una grande consapevolezza e un forte desiderio di mettersi in gioco.

Ed era un ragazzo che soffriva. Una sofferenza che la sua famiglia aveva visto, ascoltato, accolto. Lui stesso racconta dell’equipe di professionisti da cui era seguito e che ahimè sentiva non bastassero a risollevarlo dalle sue difficoltà.

La complessità del dolore

Puntare i riflettori contro chi “non avrebbe colto la sua sofferenza” mi ha fatto provare una rabbia immensa. Una rabbia contro l’incapacità di empatizzare con la sofferenza di chi Nicolò lo amava davvero. Di chi, ne sono certa, ha fatto il possibile e l’impossibile per offrirgli tutto il supporto affettivo e professionale che poteva. Di chi, come genitore, familiare o amico, ha sofferto in silenzio, impotente di fronte a un dolore che a volte è troppo difficile da affrontare.

Per fortuna, ho letto anche qualche articolo apprezzabile che metteva in luce la mancanza di conoscenza in tema di salute mentale e i tabù che ancora la circondano. La nostra società è, spesso, incapace di riconoscere la sofferenza quando questa non è visibile nel corpo, nascosta da maschere di apparente benessere.

Una sofferenza che viene, spesso, liquidata come un capriccio, come un bisogno di attenzioni, come un qualcosa che si crede possa risolversi con frasi come “aspetta che ti passa”, “basta che non ci pensi e ti distrai”.

Il peso del suicidio

Sul disagio dei nostri giovani - e non solo - ci sarebbe ancora molto da dire. E sul tema del suicidio, purtroppo, ancor di più. Personalmente, sono enormemente grata al prof. Maurizio Pompili, che da anni si dedica alla ricerca e alla sensibilizzazione sulla prevenzione del suicidio. Grazie al suo lavoro, migliaia di professionisti sono stati formati, e la sua attività rappresenta un ponte fondamentale tra l’Italia e la comunità scientifica internazionale.

Il rispetto per il dolore invisibile

Ecco, sento di scrivere queste riflessioni in risposta a chi parlato di “richiesta di aiuto non colta”. Il mio vuole essere un abbraccio per i genitori e il fratello di Nicolò e per tutte le famiglie che si trovano a dover accettare una scelta che, come ha sintetizzato molto bene il prof. Pompili, non è tanto il desiderio di morire, ma il bisogno di mettere fine a una sofferenza che sembra insopportabile.

Che questa storia, come quelle di tanti altri ragazzi e ragazze, ci possa insegnare il rispetto.

Il rispetto per un dolore che spesso non si vede.

Il rispetto per chi continua a battersi, nonostante tutto.

Il rispetto per chi chiede aiuto, ma non gli basta.

Il rispetto per chi è vicino, spesso impotente, e soffre anch’essə in silenzio.

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Ho una malattia si chiama fantasia: porta quasi all'eresia è considerata pazzia…
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